All’inizio il cinema non montava. Mostrava. Un’unica inquadratura, fissa, che raccontava una scena come se fosse teatro su pellicola. Ma proprio in questa semplicità nasceva, inconsapevolmente, il primo embrione di ciò che oggi chiamiamo piano sequenza.
Il piano sequenza, per dirla semplice, è una scena intera girata senza tagli. Nessuna interruzione, nessun cambio d’inquadratura. Solo la camera che segue l’azione, in tempo reale. Oggi è considerato una scelta stilistica audace. Ma in origine era una necessità tecnica.
 
All’alba del cinema, i registi non avevano gli strumenti per fare tagli complessi. La pellicola era fragile, le macchine da presa ingombranti. Così si girava tutto in una sola ripresa, spesso da una posizione fissa. Eppure, in quel vincolo, si nascondeva una forza.
 
Con l’arrivo del montaggio, il piano sequenza sembrava destinato all’oblio. Tagliare significava controllare il ritmo, manipolare il tempo, spostare lo sguardo. Ma alcuni autori hanno scelto di tornare indietro. Non per nostalgia, ma per esplorare un’altra forma di verità: quella che nasce nel flusso continuo delle azioni.
 
Il piano sequenza è tornato in auge nel Novecento come gesto di rottura. Mostrare tutto, senza filtri. Uno stile che fa sentire lo spettatore dentro la scena, come se la stesse vivendo. Non c’è rete di sicurezza. Se qualcosa va storto, si ricomincia da capo.
 
Da Orson Welles a Hitchcock, fino ai virtuosismi contemporanei di Iñárritu o Sam Mendes, il piano sequenza è diventato molto più di una tecnica. È una dichiarazione. Un modo per dire: guarda bene, non ti nascondiamo niente.

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